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SABBA

Sentì il collo strattonarsi verso il basso: violento, netto, di nuovo. 

I capelli le si erano impigliati tra il braccio e sua figlia, che si era caricata sul fianco destro. Lei, Irene, aveva ben deciso di piantarsi nel mezzo del corridoio del centro commerciale, di fronte a una vetrina di articoli per la casa, costringendo la madre a prenderla in braccio. Quattro anni e già aveva capito i meccanismi dell’atteggiamento passivo-aggressivo. 

I capelli le arrivavano oltre la cintura. Una follia, con una figlia piccola. Sua cognata glielo aveva detto almeno quattro volte, non so proprio come tu faccia a tenerli così lunghi, io li ho tagliati subito con i bambini, sono più pratici. L’unica risposta sensata, fatti i cazzi tuoi, era sempre rimasta saggiamente nella trachea. 

Andò decisa verso il bambinodromo, per mollare Irene almeno mezz’ora a una ragazza intrappolata in un recinto a mo’ di giungla con otto bambini tra i tre e gli otto anni. La vittima sacrificale del sabato pomeriggio libero di mamme e papà accolse Irene sorridendo, dicendole ma che belle scarpine, che capelli lunghi, come quelli della tua mamma. A Irene però non fregava un cazzo dei complimenti, si fiondò senza salutare nella vasca con le palline colorate. 

Il supermercato, metri e metri e metri di merce, era chiaramente pieno. Tutti facevano la spesa il sabato pomeriggio, anche gli anziani, che non avevano la scusa del poco tempo in settimana. La santificazione dello sabbath adesso era questa, immolarsi in un edificio enorme, adorando vetrine e oggetti, rendendo grazie alla promozione, inchinandosi penitenti di fronte a un cartellino che non ci si poteva, ancora, permettere. 

Scorreva la lista con le corsie, notando quanto inutile, superfluo, fosse tutto questo, in un senso di nausea crescente dato dalla sveglia presto e dai troppi caffè presi per tenersi in piedi. 

Guardò meccanica gli articoli scansionati, bip bip bip, di fronte all’ennesima vittima di quel sabato, i cui occhi vacui le comunicarono senza espressività novantasette e cinquantadue. 

Dalla figlia, le porse subito un cioccolatino con sorpresa, quelli messi apposta ad altezza manine perché finissero sui nastri senza neanche accorgersene. 

Prendiamo una pizza? E un film cartoon guardato a metà, prima che tutti cadessero addormentati, Irene in una stanzetta piena di pizzi e pupazzi e suo marito con la bocca leggermente aperta, mezzo di sbieco anche nel suo posto. 

Aspettò le undici, poi si cambiò e uscì. A piedi nudi, senza fare rumore. 

Quando percepì il calore della terra del bosco sotto le dita sentì la tensione sciogliersi, l’orlo della gonna frusciare tra le foglie. 

Da sinistra arrivò Mirta, che le prese la mano e le raccontò che al pomeriggio alla partita avevano rotto il naso a un compagno di suo figlio, se lo facevano al mio ti giuro che gli strappavo la giugulare, e poi Oriana, da destra, che era stata con la madre anche lei al centro commerciale, le ho preso un foulard, bello, in saldo

La radura che si aprì di fianco al fiume era piena. Dovevano aspettare le tre, intanto parlavano e bevevano, si lamentavano dei figli e dei mariti. Si intrecciavano i capelli lunghi l’un l’altra, aggiungendo rami e foglie nelle acconciature. 

Poi la Luna sorse, e la vita di quel giorno venne dimenticata, mondata dalla sacralità del rituale.  

Il cerchio prese a muoversi, da tante diventarono una, un solo spirito adorante.  

L’unico sabato che avesse un senso: il loro sabba. 

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